Una bella figura di sacerdote diplomatico Giuseppe Canovai, di Maria Fassina, su “Il Messaggero d’Italia” di Buenos Aires, 1952
Sono già dieci anni che Mons. Giuseppe Canovai, terminata la sua rapida carriera umana, ci lasciava e varcava quelle soglie della Casa Paterna, che tanto aveva anelato e glorificato con la sua parola.
Chi l’ha conosciuto non l’ha potuto dimenticare: se con rammarico perde il disegno preciso delle sue linee corporali, ritiene intera la profonda impressione di pienezza spirituale che l’anima provava alla sua presenza e vede sempre più isolarsi ed elevarsi la sua figura sopra persone e cose:“Tanto diverso da tutti eppur simile a tutti, quanto il Regno di Dio si eleva sulla città della terra”.
Mentre era fra noi, piccoli e grandi, l’amavamo, l’ammiravamo, lo cercavamo, perché Egli, coprendo con cura la straordinaria misura della sua virtù e del suo ingegno, appariva semplice ed accessibile a tutti, rivestito di quella cordiale e squisita amabilità che conquista gli animi.
Credevamo che la perfetta armonia delle più delicate e preziose qualità del cuore con una potente personalità spirituale, in cui si integravano acutezza dialettica, sensibilità artistica e vasta cultura umanistica, e con una straordinaria capacità contemplativa, che si traduceva in una interpretazione originale e viva della Parola Divina, fosse un dono eccelso della grazia, armonizzante meravigliosamente in una Creatura privilegiata i talenti umani e spirituali, così naturalmente come nelle albe biancheggianti l’orchestrazione canora degli uccelli.
Solo la morte rivelò il prezzo di quella armonia e di quel potere di conquista, e l’eroismo della Volontà nell’uso della libertà umana,”Se il seme non muore non dà frutto” ha detto il Maestro, ed anche questa volta la Parola Divina non ha sofferto eccezione.
Il diario di Mons. Canovai testimonia che dalla ordinazione Sacerdotale la sua vita non fu solo il lento morire alla natura per vivere nella grazia, ma fu una continua e vera agonia, tanto intenso fu il ritmo di quel morire: nell’ordine fisico per la precaria salute che l’accompagnò tutta la vita, cagionandogli un tremendo squilibrio tra le forze fisiche e quelle spirituali ed intellettive; nell’ordine spirituale per la solitudine d’affetti a cui lo condanno la morte prematura di tutti i suoi famigliari, e per le sue ansie di ministero sacerdotale diretto con le anime e di apostolato intellettuale, deluse durante nove anni di lavoro d’ufficio arido e monotono.
Questa agonia pienamente accettata, offerta e chiesta in unione alla Croce del Maestro, che si fecondava in forza redentrice ed in potere di conquista, fu il suo segreto con Gesù, perché ben poco trapelava esteriormente, chè anzi la sua festosa cordialità e la vivace letizia facevano apparire semplice e facile il suo cammino.
Fu il segreto che dava alla sua parola qualcosa del misterioso fascino divino, tanto che quando disparve avremmo potuto ripetere con i discepoli di Emmaus “ Non è vero che sentivamo infiammarsi il nostro cuore, quando ci parlava e spiegava la scrittura?”.
Tutto il suo spirito fu pieno del pensiero della Croce, e così convinto del suo potere redentore da considerarlo amabile e caro come i più grandi santi e trasformarlo in luce e in amore ogni minuto.
“Nella Croce la luce” scriveva nel suo diario. “Il cuore ferito dalla morte rifulge più splendido per l’amore”, “Più vale il silenzio al piede della croce, che molte opere”.
Il crescendo dell’unione alla croce si trasformava in un crescendo d’amore: “molto ama, molto crede, molto spera chi tace e consente di essere spogliato di sé per amore di Cristo. Non pensare di amare, mentre la tua anima apprezza qualche cosa fuori dell’amore. Il linguaggio dell’Amore è il silenzio”.
Da questo amore incandescente per Cristo nasce il suo amore per gli uomini e la sua delicatezza nell’avvicinare le anime, nasce l’umanità del suo apostolato, che si fa umile e tenero, affermando energicamente: “Bisogna avvicinare un’anima, come chi serve, accondiscendere, sopportare, non comandare…fare come la madre che sostiene il bimbo a cui insegna a camminare, però non glielo fa sentire”. Conclude: “Bisogna vivere la vita di tutti nella più intensa e profonda partecipazione della vita di Cristo in noi”.
Se uno dei grandi romanzieri d’oggi, che hanno preso il Sacerdote per protagonista dei loro libri, avesse conosciuto Mons. Canovai avremmo una rappresentazione del Sacerdozio cattolico ben diversa da quelle che esistono, una glorificazione del Sacerdote cattolico del nostro tempo nella figura di questo Sacerdote romano, morto a trentotto anni.
Egli che visse come una fiamma di luce e d’Amore per tre anni nella Nunziatura Apostolica di Buenos Aires, in mezzo al gran mondo della diplomazia e dell’aristocrazia, conquistandone le simpatie ma senza contaminarsi affatto, anzi accelerando la marcia verso la rinunzia totale, appare ora a dieci anni della morte come un modello e un simbolo della missione sacerdotale contemporanea che oggi più che mai esige tanto eroismo per la fetta attualità del pensiero e dello stile, per l’essenziale, intensa e veloce storia della sua breve vita.
“Tu sai, Signore, che ho sete inestinguibile di affrettare la marcia, senza guardare l’energia che si consuma…scialacquando, se così si può dire, il sacrificio, come fece con il suo Sangue Gesù per redimerci” scriveva ultimamente…
“Spremi, Signore, che non resti una goccia di sugo e che il sugo sia saporoso e fresco e grato per le anime assetate”.
Meritò così di morire al canto delle note del “Vexilla Regis”che è l’inno della Croce, il giorno 11 Novembre, festa di San Martino, protettore di Buenos Aires.
Coincidenza provvidenziale, perché anch’Egli certo è oggi in cielo un protettore di questa città e ben assomiglia al Santo che ancor catecumeno dava metà del suo mantello al povero che gli chiedeva l’elemosina, chi voleva spremere e consumare totalmente la propria vita per spegnere la sete delle anime.
Per ricevere maggiori informazioni su Mons. Canovai scrivere a: segreteria@familiachristi.org